A sera nella stalla si raccontava
Era la più umana maniera di stare insieme e perché era il più comune e meno costoso dei piaceri, il più grande passatempo della vita e della conversazione. Il fascino del conversare nelle "veijà" (veglie) era quello di non attenersi ad un argomento prefissato, senza sapere dove conducesse esattamente il discorrere, mentre vagava da un fatto realmente accaduto o ad un ricordo o ad una fantasia, oppure ad una battuta di spirito o ad un proverbio assennato.
Nelle veglie il racconto era come il vento fra le vele della fantasia: ti catturava e ti conduceva alla scoperta di nuovi orizzonti.
Nella stalla "a cà 'd Pavat"non si faceva la "veijà", almeno dalla seconda metà degli anni cinquanta in poi del secolo scorso, ma veniva usata nel tardo pomeriggio ed a inizio inverno per eseguire lavori sedentari che era sconsigliato effettuare all'esterno e al freddo.
In particolare nonno Bepi ( perché dopo la nascita del primo dei nipoti il mezzadro Giuseppe detto" Bepi bragheto" era diventato "nonno" per tutti!), aggiustava i rastrelli di legno oppure rimanicava gli attrezzi obsoleti, oppure costruiva le scope di "meria ruŝa" (saggina) per la casa o di sanguinella per la stalla ed il cortile. Oppure per "sarnir" (pulire e dividere per tipo) le "gure" - in canavesano - o "strope" - in veneto - (i vimini) che sono stati "scarvati" dai salici all'inizio dell'autunno, dopo la caduta delle foglie e che sarebbero servite nei lavori di legatura e tenditura delle viti nelle vigne.
"Pilin" era solito eseguire la cernita delle gure, dei gurass e dei gurin nei pomeriggi invernali al tepore della stalla. Il "bocia danà" assisteva alle operazioni e partecipava alla fomazione dei mazzi per qualità e dimensione. In queste occasioni il buon Pilin, per intrattenere ed invogliare il bocia, era solito raccontare delle storie, degli aneddoti o delle favole che venivano ascoltate e recepite con il massimo dell'attenzione.
Erano racconti di fatti avvenuti in paese nei tempi passati o di persone che non c'erano più, oppure di facezie per impressionare l'attento ascoltatore. In particolare il bocia ricorda la storia dei "tre gatti neri" che saltavano nel pozzo di Sulcaria, o la storia "dal rastel seinsa sang" oppure della "processione delle anime dei morti" al cimitero.
Di quest'ultima Pilin, con divertita ironia, enfatizzava il racconto - per impressionare maggiormente il "bocia", che pendeva letteralmente dalle sue labbra - che nelle notti di fine estate dal cimitero di Romano uscivano in processione le anime dei morti dei dannati o di quelli che non avevano ancora espiato i loro peccati per poter essere ammessi al regno degli inferi, oppure dei bambini morti senza aver ricevuto il battesimo. Le loro anime uscivano dalle tombe e si materializzavano in forma di fiammelle azzurrognole galleggianti a mezzaria e vaganti nel buio della notte: il loro scopo era quello di portare fuori strada i viaggiatori notturni incauti.
In effetti trattasi di un fenomeno denominato "fuoco fatuo" il cui termine deriva dal latino " ignis fatuos". Tavolta sono chiamati "fuochi santi", per una somiglianza con il fenomeno dei " Fuochi di Sant'Elmo", ma in realtà si tratta di due eventi ben differenti.
Le leggende sui fuochi fatui sono moltissime: alcuni le riducono all'esistenza dell'anima altri credono che seguendoli si possa incontrare il proprio destino.
Gli Egizi credevano che il "akh" (il luminoso dell'anima) tanto più si illuminava tanto più si era stati buoni nella vita.
Per "fuoco fatuo" si intende una fiammella leggera di colore azzurrognolo e fosforescente prodotta dalla combustione spontanea di metano, gas idrogeno fosfato o altri idrocarburi: queste combustioni sono originate dalla decomposizione di materia organica, sia essa di natura animale che vegetale. Questa quindi è la spiegazione scientifica razionale del fenomeno che è stata data nei tempi più recenti e per questo motivo le loro apparizioni sono legate ad ambienti peculiari come acquitrini o campisanti.
Un tempo le bare dei defunti non venivano sigillate ermeticamente come oggi e durante il processo di decomposizione della salma i gas fuoriuscivano dalle fessure disponibili e filtrando attraverso il terreno davano vita a queste fiammelle.
Tant'è che il "bocia danà" , nel lontano 1963, con il solito gruppo di amici era andato alla festa patronale di San Michele nel vicino paese di Scarmagno.
Trascorse tutto il pomeriggio immerso nei festeggiamenti e ai divertimenti ivi presenti senza rendersi conto di aver già fatto sera tarda e superato il termine di "licenza" entro cui far ritorno a casa senza incorrere nelle sicure reprimende di mamma Santina.
Inforcata la bicicletta sottratta di nascosto alla madre e giù a precipizio in quel di Romano.
Il tramonto era ormai trascorso ed il crepuscolo era già inoltrato, tale però da consentire una visibilità ancora sufficiente. L'illuminazione pubblica sulla S.P. 56 allora era inesistente fino a dopo a San Sulitru (la chiesa cimiteriale di San Solutore) dove cominciava con una flebile lampadina a incandescenza da 50 candele.
Pigiando sui pedali a tutta birra sulla strada del ritorno e verso la "lea" (viale Marconi) rimuginava un pensiero a come giustificare il ritardo senza far caso a quello che succedeva all'intorno. Giunto in prossimità del cimitero, il "transfugo", invece inchiodava la bici e posati i piedi per terra, con gli occhi sgranati intravedeva suo malgrado e con immenso stupore una processione di fiammelle che usciva dai cipressi del cimitero, attraversava la carreggiata stradale e rientrava scomparendo subito dopo nel folto delle piante: subito dopo si ripeteva l'evento!
Memore dei racconti di Pilin sulla processione delle anime dei morti, colto da sacro terrore e preso alla sprovvista pensò di far immediato dietro front e raggiungere casa facendo il giro su per il paese e ritardando ancor di più il rientro con il sicuro inasprimento delle contumelie e rischiando anche quelle da parte paterna. A ragion veduta, piuttosto che andare a letto senza cena e con il culo caldo, prese il coraggio a quattro mani e risalito sulla bici, chiuse gli occhi e pestando sui pedali fece una volata alla "Saronni" senza far caso a quello che stava attraversando sulla strada. Si sentì un piccolo rumore di sferragliamento e qualcuno che uscendo dal folto dei cipressi, cristonava come un turco e lanciando improperi di ogni genere in direzione del velocista assassino!
Trascorsi alcuni giorni, al "dopo" si venne a sapere che alcuni buontemponi del paese avevano organizzato uno scherzo mica da ridere a discapito di un paesano notoriamente pauroso: tal "Flip ad Pasqual". Con il gioco del trenino elettrico avevano posato i binari sul sedime stradale e messo sui vagoncini dei moccoli di candela accesi e che avrebbero messo in funzione all'avvicinarsi del predestinato: il trenino percorrendo il circuito del binario, nella semioscurità della sera, voleva far simulare il fenomeno dei fuochi fatui e far sembrare apparente la processione delle anime che uscivano dal cimitero.
Purtroppo per loro lo scherzo fallì perchè il predestinato era stato anticipato da un bocia danà che, con la fifa che faceva quaranta, non aveva esitato a distruggere l'ambaradan.