L'autunno porta con sé, oltre un clima di sublime nostalgia, la tradizione del cosiddetto cibo povero: polenta, patate, castagne e ... "Graspìa" ( in idioma veneto mentre in piemontese diventa "Picheta"). Ma di cosa si tratta per quest'ultima? Va detto che la "graspìa o picheta o anche vin piccolo" é una bevanda di fortuna creata in maniera intelligente da una società, quella contadina, che sapeva trarre vantaggio da condizioni d'emergenza. Una bevanda ottenuta grosso modo dall'uva, ma non definibile un vero e proprio vino (oggi si definirebbe " vino non strutturato!")
Si ottiene dallo sfruttamento esasperato delle vinacce ottenute dopo la svinatura del mosto fermentato e non ancora vino. In una botte scoperta (il tino) vanno messe le vinacce non torchiate fino a raggiungere i tre quarti, quindi vanno pressate ponendovi sopra delle tavolette di legno che fungano da pesi. A questo punto si versa acqua tiepida assicurandosi che le vinacce siano completamente a mollo. C'è chi usa aggiungere dello zucchero e una manciata di sale per favorirne la rifermentazione; dopo alcuni giorni si spilla dal foro inferiore della botte una bevanda quasi alcoolica che ha preso il colore del vino, fresca e asprigna che comunque, in tempi di miseria, in difetto di altre alternative veniva consumato subito ad uso domestico e per dissetare i contadini nel duro lavoro dei campi, in attesa della maturazione del vino fiore.
Tendeva con facilità ad alterarsi, ma se mantenuto in luogo fresco poteva conservarsi qualche mese: “fijgna al prim trun" (fino al primo tuono) dicevano i vecchi, anche se in fondo rimaneva pur sempre "al vin dei pitochi" ( il vino dei poveri) visto infatti che il vino vero e proprio era prerogativa degli abbienti o destinato alla vendita.
Un tempo il vino era un alimento indispensabile per il sostentamento dei contadini, per questo più che alla qualità si puntava alla quantità e destinare le vinacce alla distillazione sembrava uno spreco, che nella visione ancestrale dei nostri vecchi, quando si stava meglio - dicono - anche se si stava peggio, del "non si butta via niente"
A volte penso che tanti non sappiano quanto sia bello essere nati e cresciuti in campagna in mezzo alla natura; non sanno la gioia di ascoltare i canti delle cicale nei meriggi d'estate, dei grilli ubriachi di luna, degli usignoli sui ciliegi in fiore. Non sentono i profumi che aleggiano nell'aria in ogni stagione, quelli dei fiori, del fieno, dell'erba appena tagliata. Ma il più importante che si avverte, specialmente nelle notti di luna settembrina, é l'aroma del mosto che bolle nei tini e va girando nella brezza notturna, accolto dagli animi più sensibili come " un miele per l'anima".
Si giocava nel vigneto, sicché si sentiva il crescere dell'uva in ogni stagione. Ecco che in primavera, al primo risveglio dei campi, uscivano dai tralci delle goccie che al riflesso del sole sembravano perle, lacrime vere.
"Chel parchè i vij a piuru?" ( Chel - Michele perchè le viti piangono?) chiedeva il bocia danà, "a piuru par la cuntentessa!" (piangono per la gioia!) rispondeva lui, "varda, se an mai a piura nen a vol dir che a la nen passà al gel dl'invern e la vij a gnirà sëcca, sainsa vita" (vedi, se un tralcio non piange vuol dire che non ha retto al gelo dell'inverno e la vite diventerà secca, senza vita).
Il bocia danà ricorda che andava con Chel nella vigna "dal munfiard" per controllare lo stato di maturazione dell'uva, passeggiando fra le "palere" (filari) e accarezzandone i grappoli vellutati, lo stesso gli diceva "varda che bela vindimmia che l'an a st'ani" (guarda che bella vendemmia abbiamo quest'anno) e prendeva fra le mani un grosso grappolo d'uva e posandolo delicatamente fra le mani del bocia gli brillavano gli occhi dalla gioia.
Giunta l'epoca della vendemmia, i vendemmiatori, agli ordini di Pilin e Chel, riempivano i "curbeij e i cavagnin" (cassette e ceste) d'uva e li scaricavano nei "subar" (mastelli) che poi venivano a sua volta trasferiti, da due uomini mediante una "stanga", nell' "arbit" (bigoncia) ben assicurato al carro posto al fondo della toppia (pergola).
La follatura dell'uva o meglio la pigiatura avveniva a casa direttamente nella bigoncia: non c'erano ancora le macchine moderne e così due-tre uomini con i piedi nudi, a turno, pestavano l'uva avendo arrotolato i pantaloni fin sopra le ginocchia. Il bocia danà seguiva ogni gesto e assaggiando,di nascosto con un dito, il primo mosto, mentre i pigiatori saltavano nell'arbit quasi a tempo di mazzurca.
Che buono, che dolce il primo mosto, sembrava miele; intanto arrivava mamma Santina con un pentolino, per riempirlo di mosto dal quale, dopo averlo bollito aggiungendo la farina, sarebbero usciti i famosi "sugoli" (specialità veneta tipo vin cotto) quella specie di polentina color del mosto, così profumata, era buonissima.