A far "maroda"
A far "maroda" non era poi così facile: a volte se gli scavezzacolli “venivano sorpresi” in fragranza di reato, si rischiava calci in culo e abrasioni a braccia e gambe dovute a fughe precipitose attraverso i filari delle vigne o dei boschetti adiacenti ai siti oggetti di scorreria.
Il "bocia danà" era uno specialista nell'individuare i frutti di stagione prossimi ad essere maturi forte della costante e certosina conoscenza delle varie "valbe" del paese. Essendo figlio di mezzadri che avevano, fra l'altro" anche la conduzione di alcune vigne dell'azienda agricola padronale, era giocoforza che fosse sempre in giro a "spiare" per le vigne e frutteti altrui con disperazione della madre sempre in ansia per “sto figlio discolo”.
Nella stagione delle ciliegie e delle pesche era consuetudine visitare quelle del "Bobias" ed il cui proprietario spesso e volentieri era "stermato" nel casotto in attesa dei predatori per effettuare una furibonda sortita provocando una fuga disperata degli impavidi "dasbela" attraverso le "palere" delle viti o degli alberi da frutta: per il proprietario era piu’ che altro un gaio divertimento vedere il fuggi-fuggi generale ed i conseguenti capitomboli e scivoloni di coloro che non conoscendo perfettamente gli anditi di fuga, inciampavano nei fil di ferro posti alla base filari. Memorabile la fuga al chiaro di luna del " bocia daná" in seguito ad una scorribanda all'uva nella vigna del "cirlo" in quel di "Val": oggetto del "prelievo gioioso" (non per il vignolante proprietario!) era l'uva bianca "regina" i cui grappoli avevano "asinei" grossi come ciliege. Siccome tutti gli anni era costantemente oggetto di rapina ed ormai stufo di essere saccheggiato, quella sera provvedeva ad un'attesa in casotto per evitare, per quanto possibile, il ladrocinio dell'uva.
L'allegra brigata pur pervenendo alla chetichella veniva sorpresa sul fatto provocandone l'immediata fuga in tutte le direzioni. Il "bocia danà" si sfilava dal vigneto attraverso il prato adiacente (con il suo grappolo in mano) non ricordandosi che alla fine stesso iniziava la vigna di Olga e Tarsila sita ad un livello più basso del prato ma le cui toppie erano al medesimo livello per cui al chiarore della luna non era possibile distinguere la fine del prato e l'inizio della vigna. Il ribaltone che ne seguì fu’ disastroso: un salto di circa due metri attraverso la toppia con braccia e gambe spelate contro i traversi e i fil di ferro della stessa ed atterraggio sul fondo schiena: dolorante e sanguinante ma con ancora il grappolo d'uva in mano intraprendeva la strada del ritorno previo risciacquo delle ferite al "brunel d'la Fracia": vista l'estensione delle escoriazione Franzet d'esterina pensò bene di disinfettare le ferite pisciandoci sopra: sai che goduria!!!!
A quel tempo si portavano ancora le "braije corte" per cui nei giorni successivi il bocia daná esibiva mestamente dei bei crostoni sulle cosce e sugli avambracci a riprova delle malefatte intraprese.
(n.d.a. il prato era quello del "bene Lisa" di proprietà dell'Asilo e dove ora sorge la palestra comunale mentre la vigna delle sorelle Ressia era dove adesso è stato realizzato il piazzale di ingresso alle scuole in via S. Isidoro).
Un'altra marachella, decisamente più cattiva, il "bocia danà" la commise insieme alla combriccola in quel di "prati di piazza": anche questa in seguito a sortite di maroda.
Era l'autunno inoltrato per cui la frutta ancora da piratare cominciava a stentare per cui l'attenzione veniva rivolta a quello che restava: nel caso specifico l'oggetto dell'interesse fu una pianta di kachi. Neanche tanto grande, di ridotte dimensioni e comoda da salire ma con i frutti che cominciavano ad essere maturi. Mentre era in corso un modesto e gioviale prelievo (più che altro era una verifica dello stato di maturazione) si udì una fucilata con il sibilo dei pallini sopra le teste dei bocia dasbela, seguiti dagli starnazzamenti del proprietario. Immediata fuga, a gambe levate e con il cuore in gola, in direzione del cimitero e successivo raduno in piazza della chiesa.
Lo spavento fu’ notevole e imbarazzante, tale da tramutarsi in rabbia furente: non era mai successo che si venisse fatti oggetto di reazioni talmente sproporzionate ad una marachella, peraltro, di limitate proporzioni e di consolidata tolleranza: urgeva convocare un "consiglio carbonaro" che deliberava unanimemente di adire ad una funesta vendetta!
Detto fatto: tre giorni dopo il kaco con i frutti rimasti risultava "trapiantato" davanti al portone di casa del proprietario.