'L sicristin
Al 24 aprile del 1960 (domenica in albis) il "bocia danà" faceva la prima comunione per cui, da quella data doveva incominciare la carriera da "sicristin" (chierichetto). La cresima l'aveva ricevuta straordinariamente l'anno prima a settembre insieme a quelli del '51 e del '52 (allora il vescovo era mons. Albino Mensa e veniva in paese molto saltuariamente) e il ciclo catechistico già compiuto.
Fare il chierichetto significava alzarsi alle sei del mattino d'inverno (d'estate alle cinque e un quarto) e recarsi in chiesa parrocchiale per servire messa al viceparroco prima e al prevosto subito dopo.
A quell'ora e a quell'età e da immaginare la fatica a uscire dal calduccio del letto (dopo vari richiami), vestirsi in fretta al freddo e una frettolosa simulazione di un lavaggio della faccia prima di passare l'ispezione di mamma Santina ed percorrere a digiuno (perchè doveva fare la comunione) e di corsa le vie del paese per arrivare in tempo in sacrestia prima che suonasse per la seconda volta la campana della chiesa e non prima di aver deviato nella strada della Rua (l'attuale via Fiume) per depositare la "sporta" del pane dal panater d'la caneuva ( i fratelli Flip e Pinòto) che avrebbe ritirato dopo messa.
La prima messa (quella del viceparroco don Preverino da Locana) aveva inizio alle sei e mezza, dopo che il bocia danà avesse infilata la "vesta" (la tonaca) ed il rocchetto e aiutato il sacrista (Toni Favaro) a vestire il prete e a preparare l'altare. Il suono della campanella annunciava l'uscita dalla sacrestia e l'ingresso nel presbiterio della processione del celebrante con i paramenti ed il calice e del chierichetto con il messale in mano. Ad assistere alla funzione religiosa erano pressochè i soliti: le suore, le maestre, tot'Emilia, Paolina Fecci, le toterine, Maria roša e qualche altra decina di persone tra donne e uomini che partecipavano alla celebrazione rispondendo nell'ampia navata perlopiù... in latinorun!
Terminata la messa del vice si proseguiva con la celebrazione eucaristica del Prevosto (don Carlo Monti da Mazzè) che essendo già avanti con gli anni, per salire e scendere le scale dell'altare utilizzava il chierichetto di turno come "bastone antelitteram". In una occasione, quando sulle scale dell'altare era dispiegato il tappeto per le "feste grośe", il bocia danà scendendo con il prevosto che si appoggiava sulla spalla, prese uno scapuzzone su una piega del tappeto e fece un volo spettacolare planando fin quasi alla balaustra: il messale però non lo mollò!
In compenso però, a fine messa, si centellinava il vino residuo rimasto nelle ampolline che di solito era il passito del prevosto.
E questo succedeva tutte le mattine per tutto l'anno. D'estate le messe da servire diventavano cinque, alcune in contemporanea: il vice, il prevosto, il padre Cristoforo (frate domenicano predicatore al secolo Giacomo Bellono), don Paolo Bellono (salesiano professore di storia dell'arte al liceo di Biella) e don Tarcisio Bertone (salesiano ora Cardinale). Con tutti sti preti il vino da messa non bastava mai per cui il bocia doveva fare una rapida fuga fino in canonica per farsi riempire l'ampollina da Chinota che contestualmente brontolava e con il sospetto che, tra un' offertorio e l'altro si perpretasse un furto da parte dello stesso. Don P. Bellono era il più simpatico perchè era il più sbrigativo e l'unico che si ricordava di compensare il sicristin con delle stecche di cioccolata: gli altri erano troppo ... formali!
Finito di servir messa, il bocià danà ritornava a casa passando dalla Rua per ritirare il pane dal panater Pinòt d'la caneuva il quale faceva trovare già pronta la sporta con dentro normalmente quattro chili di micche e biove e due micchette per Pilin e Michel che le avrebbero utilizzate il giorno dopo perchè a loro piaceva " al pan arsetà". Nel periodo in cui il bocia frequentava il seminario, Pinòto ('che anche lui, ai suoi tempi, era passato per il vescovile e che aveva dovuto abbandare gli studi per "mancanza di vocazione" !!!) gli regalava una micchetta imbottita con una fetta di mortadella o di formaggio e con la costante raccomandazione: "fate nen mangiar i libar da la crava me che lo fat mi". Allora il pane non lo si pagava per contanti perchè il quantitavo somministrato veniva annotato sul "libretto del pane": a fine mese si regolavano i conti con il pagamento della sola "ćeuta" perchè la farina necessaria proveniva dal baratto "muliner - panater" ossia: il mezzadro portava un quintale di grano al mugnaio il quale restituiva ottanta chili di farina ( la crusca ed i cascami provenienti dalla molitura venivano trattenuti come paga: circa venti chili) al panettiere che avrebbe ceduto al contadino fruitore cento chili di pane oppure ottanta chili se non veniva pagata la cottura (ćeuta); con un quintale di farina si facevano centoventi chili di pane!
Il tempo di uscire dalla bottega e imboccare la strada della Rua che il panino era già sparito e un'altra micca era in lavorazione.
Raggiunta la casa in via S. Maria, mamma Santina faceva trovare pronta la colazione (pane e caffelatte oppure polenta e latte, raramente qualche fetta di dolce) e la cartella con i libri e i quaderni per ripartire, sempre di corsa, per andare a scuola.
Al venerdì in contemporanea all'uscita dal portone di casa, il bocia incrociava il pescivendolo che arrivava da via S. Maria in bicicletta con due casse di legno, una davanti e l'altra di dietro, con dentro il pesce pescato nel lago di Candia: carpe, tinche, pesci gatto, pesci persici, qualche luccio, scardole, bianchetti e a volte anguille. Alcuni anni più tardi si era modernizzato per cui arrivava con l'ape che, per ripartire, doveva spuntare la salita davanti a Pinot 'd cavour: il bocia gli dava la spinta e raggiunta la chiesa di Santa Maria saltava sul cassone e si faceva camalare fin sul "bal". La sosta sull'incrocio di "piaśa" non la faceva più perchè, se si fermava, c'era Genio 'd Pavat che gli mangiava a sbaffo i pesciolini crudi.
La scuola, sita al primo piano del palazzo comunale, cominciava alle nove: ... ma lì è un'altra storia!