Dal purcat as campa via gnente!
Dal purcat as campa via gnente! (Del maiale non si butta nulla) Da tempo immemore il maiale costituiva una fonte insostituibile di carne in una dieta forzatamente vegetariana e povera di proteine animali. Per cui quasi ogni famiglia aveva un maiale da allevare per la produzione di salumi e/o prodotti di norcineria. Il tutto cominciava nel mese di Luglio quando il mezzadro di Cà ëd Pavat si recava da un allevatore (di solito dal casaro Greco di Strambino) e acquistava due maialini di 30-35 kg da ingrassare fino a 140-160 (sa butava ben!) da destinarsi uno al consumo domestico e l'altro alla vendita. Venivano ricoverati in una stalletta separata dalla stalla bovina, dentro ad un recinto posto in un angolo della stessa, e accuditi giornalmente mattino e sera. Normalmente venivano alimentati con cereali, sfarinati, cruscami e residui agricoli. Non venivano usati residui alimentari quali patate, pane, pasta, ecc. perchè si riteneva che tali alimenti rendessero le carni suine meno sode e con grasso più molle. Tra Dicembre e Febbraio avveniva la macellazione ed il confezionamento dei salami. I salvadanai erano raffigurati a forma di porcellino perchè il maiale è simbolo di abbondanza. Infatti, come sopra indicato, uno veniva allevato per la vendita e costituiva il precursore del salvadaio di adesso: e poi il meglio del maiale è proprio "il dentro", come il salvadanaio in ceramica utilizzato dai bambini per riporre e accumulare monete! Il giorno fatidico (normalmente di venerdì) si predisponeva l'attrezzatura necessaria per la macellazione: si attaccano le "tajòle" al trave della "travà" per poter innalzare il suino dopo l'uccisione, il " tripè" per appoggiare "'l pareul" per far bollire l'acqua necessaria a pelarlo, la sistemazione dei "balot ëd paja" per distendere e immobilizzare l'animale per poterlo sgozzare. In casa si preparava la stanza per la lavorazione delle carni (la cûsinaša) con il posizionamento della "plancia sij cavalot", ël cuntrol dij cutei: lë stilèt për sagnè, ël piulët" per squartare le due mezzene, la "cua 'd rat" par mulaje e tutti gli altri "cit e gròss" necessari alla cernita delle carni. Veniva preparata la macchina per tritare le carni con i suoi coltelli, le trafile ed i cornetti per insaccare, le "cunche" per dividere i tagli e per impastare le carni, la "basacûla e 'l peis a bras" per pesare i "muntun 'd ciccia e le droghe". Alcuni giorni prima avevano procurato dal pizzicagnolo i budelli, lo spago, il sale, il pepe e le spezie necessarie alla concia delle carni prima di insaccarle. Al mattino del sabato, di buon'ora, si dava inizio alle operazioni: dopo aver preventivamente acceso il fuoco sotto la caldaia dell'acqua - con le buone o con le cattive - il predestinato veniva " invitato a partecipare alla funzione". I celebranti ( di solito 4 o 5) lo afferravano e, disteso sui balot, veniva dissanguato: il sangue veniva recuperato in un recipiente per farlo coaugulare ed in seguito utilizzato in cucina (questo è il sistema veneto perchè una volta bollito e spurgato veniva affettato e fritto nello strutto e servito a tavola insieme a cipolle stufate; mentre nel sistema piemontese, dopo averlo recuperato veniva rigirato per bene perchè raffreddandosi non coaugulasse, per essere usato più tardi nella preparazione della torta di sangue). Il gagno di casa, sempre tra "i piedi" partecipava appassionatamente, e pur di levarselo di torno veniva invitato a procurarsi un "luatun" (tutolo del mais) "par stupar 'l beuc dël cul dël purcat"!! Senza perdere tempo, in mezzo ai vapori della caldaia armati di brocche d'acqua bollente e di coltelli, venivano raschiate via le setole prima che diventasse freddo, facendo attenzione a non tagliuzzare la cotenna. Dopo questo lavoro da certosino veniva legato per gli stinchi e appeso mediante le tajole a gambe larghe e a testa in giù, lavato e lasciato a scolare: il macellaio (il figlio maggiore del mezzadro) provvedeva a sezionare l'animale con cautela per non forare le budella e recuperare le interiora (budelli, fegato, cuore, polmoni la lingua e la vescica) che venivano prontamente lavate, sgrassate, riversate e poste a riposo in acqua fredda. Al gagno, sempre tra i piedi, veniva chiesto di mettersi dietro al maiale per controllare che venisse diviso diritto
ed immancabilmente gli arrivava il "pisulari" sul naso fra le risatine dei presenti ed il rimbrotto benevolo del padre: "quand a l'è che t'at farè furb?" (oltre il danno, anche la beffa!). Una volta diviso in due mezzene, veniva portato nella cûsinaša e adagiato sulla plancia fino al mattino del giorno dopo quando si sarebbero riprese le lavorazioni. Era ormai giunto mezzodì e dopo aver bevuto ancora una volta "ën sup ad vin" ci si dava appuntamento l'indomani mattina di buon'ora per proseguire nei lavori. (fine 1° parte)
Dal purcat as campa via gnente! (2^ parte) Dopo pranzo il mezzadro provvedeva a pesare una mezzena per poter stabilire il peso del maiale: mediamente dal peso vivo al peso morto si verificava un calo fisiologico di circa 25 - 30 chili. Quindi provvedeva a tagliare i "piutin" per poterli pulire perfettamente e "brusataje dëi pluc" rimasti; nonchè a togliere le cervella ed i filoni, a nettare lo stomaco (per poter, il giorno dopo, fare la trippa con le verze), i rognoni, gonfiare i polmoni e la vescica dopo averli fatti rinvenire in acqua calda, preparare le spole di "firsela" per legare i salami. Nel contempo la moglie del mezzadro provvedeva a lavare a più riprese, sgrassare, rivoltare e sciacquare con acqua e aceto i budelli comperati: le rose di maiale e le torte per insaccare il salame buono; i dritti di bovino per il cotechino e per il salame da consumarsi per primo (cül da viagi!!); le vianelle del maiale (intestino tenue) per il "budan o salam 'd patata" e per le "luganeghe". Venivano puliti e rivoltati anche i "sacuciun e i fundaj" (intestino crasso e cieco). Tutti venivano messi a riposare in contenitori diversificati per tipo e anche la "fauda o raiseo" (peritoneo) che sarebbe servita per preparare le "fërse" (in piemontese) o "mortande-e” (in veneto). La brina nebbiosa era ancora alta l'indomani mattina quando i cerimonieri del salame si ritrovavano per iniziare la giornata. Nello stanzone adibito a macello, il fuoco ardeva già nel "putager" per stemperare un po’ la temperatura interna e consentire un più agevole lavoro di disosso del maiale, a cernere e dividere le carni per l'uso che se ne sarebbe fatto: la lonza, la bungiola (capocollo), la coscia, la spalla, il lardo, la pancetta, le costine, le cotiche, 'l maslun (il guanciale), la punta di petto (da far cuocere con le verze). I filetti godevano di un'attenzione particolare: nonostante l'attenta sorveglianza del capofamiglia, misteriosamente uno spariva!!! ... per ricomparire, a mezza mattinata, a fettine, sfrigolante sulla piastra della stufa e riapparire in mezzo ad una "micca" fresca di panettiere accompagnata da un generoso bicchiere di vino: il bottiglione non mancava mai!!! Effettuata la divisione e la cernita delle carni si provvedeva alla pesatura e alla miscelazione con il lardo (per il salame buono) in ragione di 2/3 di carne e 1/3 di lardo; lo stesso per i "sausisot" (cotechini) ma a rapporti invertiti con il lardo sostuito dalle "cune" (cotiche - coeše in veneto) e con più aglio e senza il vino. Le "luganeghe o sausisa" avevano il medesimo impasto del salame buono, ma con le carni intercostali e quelle aderenti alle ossa. Per il salame di patata veniva usata la scannatura della testa e delle parti grasse e sanguinolente e patate bollite in parti uguali (salume tipicamente canavesano a cui si aggiungeva un po’ di sangue per renderlo più colorato). Fatti i mucchi si provvedeva a tritare le carni, a pesarle e -in ragione del peso- a condirle con la miscela di gusti spezie (salame buono e cotechino per 10 kg di impasto: sale 3 hg; pepe 30 gr; noce moscata 20 gr; aglio qb; vino buono 1 lt. - per il patata si aggiungeva 1,5 cucchiaini di droghe miste). A questo punto aveva inizio il lavoro dei matti: impastare e continuare a impastare e a sternutire a causa del pepe: "tutta salute!" diceva il capo macchina. A Dio piacendo si finiva verso il mezzogiorno, e intanto che i pastoni riposavano, ci si sedeva a tavola per far onore alle leccornie preparate dalla moglie del mezzadro. Cosicchè dopo il caffè ed "ën ciurgnetin 'd branda faita an cà" si provvedeva ad insaccare e a legare i salami. Il gagno - sempre lì "a rumpe le bale" e per levarselo dai piedi - veniva spedito a casa di un noto burlone a prendere in prestito" 'l metër dij fërse": questo metteva in un sacco "na tola furà" (bidone) pieno d'acqua gelata e caricatolo sulle spalle del malcapitato veniva istruito a non posarlo "mai" lungo il ritorno perchè "a l'è 'd vedër e a pol sčiapaše". Immaginate la faccia di sgomento e delusione che il povero bocia (marcio di sudore per la fatica e grondante sulla schiena a causa dello scongelamento del ghiaccio) doveva avere quando scopriva la burla a cui era stato fatto oggetto (alzi la mano chi non c'è cascato?).
Alla fine, guardateli lì i salami: insaccati, legati, sforacchiati e - una tesa dopo all'altra - appesi alla stanga per asciugare nel camerino dove il mezzadro aveva predisposto le traverse necessarie. Ora toccava alle ferse: l'impasto di queste si differenziavano tra quelle per il padrone (piemontese) e quelle per il mezzadro (Veneto). Le prime avevano il medesimo impasto della "sausisa" mentre alle seconde veniva aggiunto un po’ di cuore, fegato e rognoni. Dagli impasti così ottenuti venivano ottenute delle polpette grosse come un'albicocca e avvolte nella fauda e messe in bella mostra su un tagliere ricoperto di farina di mais (una dozzina di queste con un cotechino e un paio di salami di patata veniva data come "paga" agli aiutanti per il lavoro svolto e che veniva a loro volta restituito quando avrebbero ucciso il loro maiale). Non ultimo, ma indispensabile, venivano preparati i "piutin e i preve o quajette": i primi venivano spaccati a metà per il lungo e ricomposti dopo averli conditi con aglio, alloro, rosmarino, sale e pepe; per i secondi si prendono le cotenne, tagliate a fette larghe una spanna e lunghe due, e vengono speziate e profumate come gli zampetti, avvolte su se stesse e legate (alcuni di questi costituivano l'offerta in occasione della "cuijeita dij fasëuj" assieme a fagioli e/o meliga che veniva effettuata a Carnevale). Infine le pancette, le coppe, la lonza ed il lardo si mettevano a marinare nelle conche con vino misto a spezie e odori vari (rosmarino, alloro, salvia, aglio, sale, pepe, ecc.) e rigirate quotidianamente per alcuni giorni prima di essere insaccate e messe ad asciugare e a stagionare. Si era quasi dispiaciuti di aver finito: ci si guardava intorno come a chiedersi: "C'è ancora qualcosa da fare?” Ma, tolto il "malardris" il lavoro era proprio finito. Restava solo più "la sein-a dël purcat!”